lunedì 21 dicembre 2009

MdD(luca) #5: Sufjan Stevens - (Come on feel the) Illinoise (2005)

Per conto mio SS è un genio del pop, ma uno di quei geni strabordanti creatività, il cui unico limite sembra essere proprio la loro esuberanza che potrebbe correre il rischio di essere dispersiva. Ma non è successo, almeno con questo disco.
Secondo album di un progetto che ne prevede(va) 50, uno per ogni stato degli U.S.A., è dedicato all’Illinois, lo stato di Chicago e dei suoi Bulls.
Il progetto, dopo avere dato alla luce l’album per il Michigan e appunto questo per l’Illinois è temporaneamente accantonato, in funzione di ulteriori ambiziosi progetti (si diceva la dispersività), ma già fin da quest’album mostrava difficoltà di ordine piuttosto pratico. Voglio dire: hai in mente di fare 50 album 50 (che neanche Neil Young!) e nel secondo ci metti 22 canzoni? Vabbè che alcuni sono proprio solo dei frammenti di pochi secondi, ma in totale si arriva a 74 minuti, che se non sbaglio è il limite di capienza di un CD singolo. E poi poco dopo pubblica una serie di outtakes delle stesse sessioni (altri 21 pezzi) e li dedica ancora allo stesso stato. Di questo passo quando ci arriva a 50?
Rimanendo all’album in oggetto, anche qui non si nascondono manifestazioni di magniloquenza: pezzi orchestrati per big band, cori, strumenti a profusione, reprises strumentali.
E i titoli!
La seconda traccia, che si potrebbe convenzionalmente intitolare The Black Hawk War si intitola invece (giuro) “The Black Hawk War, or, How to Demolish an Entire Civilization and Still Feel Good About Yourself in the Morning, or, We Apologize for the Inconvenience but You're Going to Have to Leave Now, or, 'I Have Fought the Big Knives and Will Continue to Fight Them Until They Are Off Our Lands!”.
Il clima generale del disco oscilla tra momenti intimi, appena accompagnati da un pianoforte o da un banjo (sì, SS ama il banjo) e esplosioni corali, festose, in cui ti immagini cheerleaders saltare sul palco ad eseguire coreografie e danze (succede proprio così!) e improvvisi ritorni alla quiete tra ottoni che scemano e clap-hands. Non ho mai avuto il piacere di vederlo dal vivo, ma da quel che si trova in rete pare proprio che i suoi concerti siano una gran festa all’americana.
Questo disco sarebbe un monumento al pop americano, se non fosse che alla fine è talmente originale da poter essere solo celebrativo di se stesso e della propria capacità di fare grande musica.

Nessun commento:

Posta un commento