lunedì 30 novembre 2009

Il Teatro degli Orrori - A Sangue Freddo

Solo una segnalazione: album superbo.
Gioco di contrasti:
Musica di piglio tamarro, ma di ottima e rara fattura. Liriche cerebrali dai rimandi popolari. Impostazione teatrale ma non supponente.
Se volete una buona scusa per ascoltare dell'hard-rock di vecchia maniera, duro e cattivo, insieme moderno e classico (pure con qualche scivolata eccessivamente retro), ma non avete più voglia di vocalizzi esaspera(n)ti e se per di più vi aggrada la fruibilità dei testi in italiano, un'ascoltatina a questo disco fossi in voi la darei.
Notevole, decisamente notevole.

Invecchiare come i Duran Duran


Faccio un outing pesante: sono stato ad un concerto dei Duran Duran. Se è un atto che mi rende indegno di questo blog, mi appello alla vostra clemenza. L'ho fatto per amore (coniugale), e l'ho fatto a 40 anni, pienamente consenziente. All'Idroscalo a Milano, in un estate che mi ha offerto altri concerti da/di reduci, Sex Pistols alla Pellerina e Siouxsie (senza Banshees) allo Spazio 211. Al concerto dei Duran l'età media era sui 38, appena limata verso il basso da alcune adolescenti evidentemente indottrinate da madri o zie in piena pubertà nei gloriosi '80. Vista dall'alto la platea offriva una distesa di teste rese lucide dalla calvizie, mentre di lato si potevano apprezzare pancette debordanti e seni che avevano visto stagione più toniche. I Duran, mi tocca ammetterlo, non hanno fatto un brutto concerto. 2 ore e mezza tirate, con tanto di set unplugged a metà concerto, miscelando come di prassi i pezzi dell'ultimo, orribile, CD con tutti i must del passato. Ok, pure le varie Rio e Wild boys mi sono molto ostiche e, hey, Abo, NON sto dicendo "infindeicontiancheidurandurannoneranocosìmale"! Però era un concerto che aveva un senso, fatto così, per quel pubblico, tra l'altro con la consapevolezza sul palco ed in platea del tempo trascorso. Nessuno sembrava giocare a "siamoancoraneglianni80!", e anche se musicalmente discutibile il concerto è filato via.

I Pistols non volevo andarli a vedere, troppa era la paura di trovarmi davanti quattro cadaveri deambulanti (oddio, detto così è un po' cinico visto che il Sig. Vicious cadavere lo è diventato davvero...) e soprattutto suonanti. Ma c'erano i Wire di spalla, ed era gratis e una bella serata estiva, e il mio amico Daniele mi ha detto di andare... Sin dall'inizio, anche qui, l'impressione è stata subito che di tempo ne fosse passato tantino. Lydon, vestito di un camicione da adepto di Osho, è stato fatto oggetto della lancio di una lattina che qualcuno, nostalgico della belle epoque du punk, ha pensato bene di tirare come si faceva ai vecchi tempi e ha reagito urlando come una vecchia inacidita "questa è maleducazione! se lo rifate me ne vado!". Aggiungete la clamorosa obesità di Steve Jones (la fender abitualmente in sede pubica appoggiava di necessità sull'ombelico) e capirete che le premesse non erano delle migliori. Ma poi, come per magia, parte "Pretty Vacant" e scopriamo che a) i Pistols non hanno imparato a suonare nel frattempo (e ci mancherebbe) b) sono in discreta forma e fanno quello che sanno fare, cioè strapazzare musichette incazzose per un'ora e mezza.
Per un confronto all'americana di musica e adiposità tra il prima e il dopo provate
http://www.youtube.com/watch?v=zmHhB9zV_rQ
e poi
http://www.youtube.com/watch?v=hvxrYm4nxXY&feature=related

Siouxsie era l'unico concerto che volevo io andare a vedere e mai avrei immaginato tanto sfacelo.
Appena salita sul palco la Siouxsie, inguainata in un orrenda tutina aderente che ne sottolineava impietosamente curve ed età, si rivela manifestamente ubriaca, malferma sulle gambe, ma soprattutto praticamente afona. A complicare le cose gigioneggia e ammicca, in un disperato tentativo di sedurre la platea. I pezzi del nuovo album, Mantaray, di per sè neanche brutto, scorrono via opachi ed indifferenziati e qualche brivido nostalgico lo strappa Kiss them for me, che la truppa di giovanotti assoldati dalla signora esegue scolasticamente bene e che porta via l'ultimo filo di voce alla suddetta. Il concerto finisce con un solo bis, tanto rammarico e tanto sollievo, sentimenti contrastanti, come se avessimo appena staccato la spina ad un malato terminale.
Riassumendo, chi sembrava più pronto a reggere le intemperie del tempo, a declinare fuori dalle mode il proprio estro musicale, si è rivelato disastrosamente inadeguato, incosciente del tempo passato. Kiss them for me, I might be delayed, cantava la Siouxsie, baciali per me, potrei essere in ritardo. Cazzo, Su, avevi ragione.

Ritorno treno di notte

Su un treno che ti riporta a casa di notte la filologia secca imporrebbe Night train to Lorca (Pogues), Trenu Trenu (Van de Sfroos), Downtown train (Tom Waits, ma anche il vecchio Rod la faceva bene), insomma ci sono migliaia di canzoni sui treni che portano/riportano amori, affetti, ricordi. La casualità ipodiana invece propone, con mia grande gioia

Virgin Mary - Antony and the Johnsons
Waiting for the bus - Chumbawamba
Viola - Sulutumana
Year of the dragon - McGarrigle Sisters
Tom Traubert's Blues - Tom Waits

tutte degne di un commento per esteso.
quindi, un cordiale fanculo alla filologia secca, spesso il caso fa meglio.... and goodnight Mathilda too!

questa mattina al risveglio...

Sell sell sell - Barenaked Ladies
Bella ciao - Chumbawamba
Ruby tuesday - Sylvie Vartan
Ciao amore ciao - Dalida
The calvary cross - Richard & Linda Thompson

venerdì 27 novembre 2009

Mi accompagnano sul treno per Bologna...

Eddie Vedder - Into the wild
David Sylvian - Secrets of the beehive
Tom Waits - The Asylum years
AA. VV. - Badlands (vedi sotto, un musti di questi giorni...)
Antony and The Johnsons - omonimo

giovedì 26 novembre 2009

You know that I would be untrue, you know that I would be a liar, if I was to say to you, girl we couldn't get much higher, come on baby light my fire...

Ho cominciato a fare politica a 14, età a cui è forse segno di maggior salute mentale essere più interessati alle tette delle compagne (di scuola) che alle dichiarazioni di Pietro Folena. Conseguentemente partecipavo al collettivo politico del liceo, dove i partecipanti dissimulavano sotto l'interesse per le dichiarazioni di Folena quello per le tette delle compagne (di scuola e di collettivo). Le riunioni del collettivo si svolgevano a casa di Nicolò, freak post-litteram, casa di cui ricordo il soppalco in tubi Innocenti e lo yoghurt home-made (bleah!). La mia partecipazione era puramente formale, in quanto ero così intimorito dal lessico e dall'aspetto vissuto dei compagni (di fatto usavano frasi astruse e limonavano in pubblico) da non prendere mai la parola. Gli unici suoni che emettevo, oltre ai “ciao” sussurrati erano dei grugniti di approvazione abbastanza acritica per i concetti che ciascuno di loro elaborava. Eppure, proprio in questo contesto, causai il più grande scandalo della mia vita. Durante una di queste riunioni qualcuno aveva selezionato come sottofondo musicale una cassetta di un gruppo a me sconosciuto e francamente noioso, che ripeteva su una struttura blues un cantato salmodiante sorretto da un organo Farfisa per una durata media dei brani di svariati minuti. All'epoca la mia dieta musicale consisteva esclusivamentedi pop anni' 60 e questi tizi mi sembravano molto lontani dal genio (Lennon-McCartney, obviously), dall'ammirevole (McGuinn-Crosby), e dal genericamente apprezzabile (Jagger-Richards) e anche grazie ad un indole poco incline alla temperanza li avevo catalogati come “palla”. Per educazione ebbi però l'insana idea di chiedere chi fossero. Mi risposero all'unisono, dieci persone improvvisamente unite, con un tono di disapprovazione come se non avessi riconosciuto mia madre o Che Guevara nella foto di Korda, ma con una vena di bonaria sufficienza “ma sono i Doors!! è Light my fire”. Avrei potuto contare su una parziale assoluzione se avessi finto un immediato (e falso) riconoscimento, invece candidamente ammisi che non li avevo mai sentiti nominare. L'ostracismo fu inevitabile. Ho capito in seguito che, per un riprovevole corto circuito ideologico, loro si aspettavano che io quanto ragazzetto impegnato, di matrice libertaria, conoscessi ed apprezzassi questa band che pur essendo americana (bleah!), anzi amerikana, esaltava e cantava la libertà, la liberazione, l'opposizione alle regole sociali, che questo antagonismo aveva portato il loro augusto leader a morte precoce. Praticamente una Baader-Meinhof in musica. Insomma apprezzare i Doors era un passe-partout per un ambiente culturale, una necessità ambientale. Confesso, non ho fatto molto per procurarmelo. Ci è voluto poco per scoprire che i Doors sono liricamente inesistenti (“sai che sarei un bugiardo, sai che sarei disonesto, se ti dicessi che non possiamo andare più in alto, forza amore accendi il mio fuoco” è una cosa che anche Ramazzotti si vergognerebbe, per non parlare del testo di “hello I love you”), musicalmente banali e che l'abituale dilatazione dei brani da 3 a 15 minuti non necessariamente significa impegno-raffinatezza-ricerca. Così come che ci sono una montagna di altri gruppi coevi che sono indistinguibili dai Doors e che languono nell'anonimato, semplicemente privi di un leader deceduto giovane e di un buon ufficio stampa. Sono eternamente grato al mio amico Lucio, che ancora in epoca di cassette audio, era riuscito a registrare la summenzionata Light my fire escludendo buoni buoni 6 minuti senza che si sentisse il taglio.
Decenni dopo mi è capitato fra le mani uno dei più brutti album della storia dell'umanità, i Carmina Burana in versione dance, autore Ray Manzarek, giustappunto tastierista dei Doors, in cui un orda di sintetizzatori (dx-7?) fa inutile scempio della musica di Orff e mi è venuto inevitabile il paragone con la politica. Ma come capita, caro Ray, di cominciare dai Doors per finire a ballicchiare l'“O Fortuna”? é lo stesso percorso che ha portato decine di antagonisti del '68/77 ad ingrassare le fila degli yes-man berlusconiani?
Recentemente, passeggiando per il cimitero di Père-Lachaise, a Parigi, ho visto una torma di adolescenti attorniare la sepoltura del fu Jim Morrison versando alcolici sulla lapide, mentre a pochi metri la tomba deserta di Chopin era ingentilita da una solitaria rosa rossa (vedi foto) e da un silenzio assoluto, a rimarcare dove stia di casa la bellezza.

Guillemots

Through The Window Pane (2006 - Polydor/Fantastic Plastic)
Un disco del 2006, tanto per ricordarci che la vita non è fatta solo di bianco, nero e tonalità di grigi conseguenti, che non è fatta solo di scelte drastiche, di integralismi e ferree prese di posizione, ma invece trae la sua bellezza dall’infinità varietà di colori e di loro combinazioni, da intuizioni e da innamoramenti, e nasconde poesia un po’ ovunque, a volerla cercare. Ecco qui un album che se ne frega beatamente di stili, scuole e convenienze e come un meteorite gentile prova a destabilizzare tutte le idee che ci eravam fatti sui destini della pop music. Nati a Londra nel 2004, i Guillemots si sono ritagliati un sobrio spazio nel panorama indie di quelle parti. Il disco arriva alle soglie della top ten, ma anzichè sfondare con il successivo (Red, dell’anno scorso, non ha una canzone all’altezza di questo esordio), i ragazzi rimangono nel limbo. In Through The Window Pane si manifestavano vitali e vivaci, ma anche intensi e profondi. Eccessivi, si potrebbe dire, perché prodighi nell’inventiva melodica, poliedrici nelle evoluzioni armoniche, addirittura straripanti nelle opzioni timbriche. Come spesso succede in casi simili, non è da una canzone dei Guillemots che si possa scoprire che cosa in effetti siano i Guillemots, perché troppi sono i cambi di prospettiva e troppo diversi gli impulsi creativi delle dodici tracce, legate più che altro dalla voce riccamente espressiva e molto pop di Fyfe Dangerfield e da un senso di libertà romantica stupefacente. Si va dalla rarefazione di Little Bear, la cui bellezza vale una vita intera, alla magniloquenza di Sao Paulo (una suite tripartita di dodici minuti, praticamente), nel frattempo tinteggiando nuances pinkfloydiane (A Samba In The Snowy Rain), osando ammiccamenti catchy alla billyjoel (Annie, Why Wait?), sciorinando ritornelli infiniti nel miglior stile british ( la splendida We’re Here, da repeat sistematico), e ricorrendo ad immancabili reminiscenze wave (chi si ricorda gli Associates? beh, la titletrack è il pezzo che avrebbero sempre sognato di scrivere). Come piccole divinità paniche giocano con tutta la gamma che l’arte di far musica mette a loro disposizione, baciati da uno stato di grazia forse irripetibile, e creando infine un piccolo sbalorditivo universo a parte, che ogni cuore sensibile potrebbe abitare per sempre.

mercoledì 25 novembre 2009

Music For Airports

Per motivi lavorativi mi è capitato stamattina di prendere l'aereo. Ho fatto attenzione a quel che veniva diffuso dagli altoparlanti dell'aeroporto: a parte gli annunci, niente.
Qui di Brian Eno se ne fottono.

oggi mi hanno accompagnato al lavoro...

Zebda - Utopie d'occase
Fear and whiskey - Mekons
Songs of sanctuary - Adiemus
25 o'clock - Dukes of Stratosphear

Devendra Banhart - What Will We Be

Ogni tanto si ha voglia di un disco che ti sappia trasmettere qualche sensazione positiva, per non dire proprio allegra. Altre volte quel desiderio di ottimismo non ce l'hai, ti andrebbe bene anche qualcosa di struggente, più affine al nebbioso spleen di queste giornate autunnali, ma poi, se qualcosa si rivela in grado di accendere una fiammella luminosa, ti accorgi che in realtà è sorprendentemente bello vedere spuntare il sole, ritrovare i colori luminosi ed accesi che si nascondevano dietro il grigiore.
Mi è capitato qualcosa del genere con questo disco. L'autore, Devendra Banhart, è il tipico personaggio con molti motivi per starmi un po' sulle palle. Spocchioso, snob, adorato come un guru di chissachè, fascinoso... senza poi, secondo me, avere mai fatto niente di così eclatante.
Voglio dire, i suoi primi due dischi di un certo successo, Rejoicing In The Hands e Niño Rojo li avevo trovato appena gradevoli, sicuri argomenti per dare del "sopravvalutato" al loro autore. Un folk un po' frichettone che tutto sommato è poco più che canzoncine semplici e delicate, con arrangiamenti accattivanti, ma che poi alla fine lasciano ben poco addosso.
E così, dopo essermi procurato il suo nuovo album, questo What Will We Be, l'ho ascoltato con la conseguente sufficienza e non ho avuto grosse sorprese: album gradevole, ma con nulla che facesse drizzare le antenne o tantomeno gridare al miracolo.
Poi, per una causa fortuita mi è capitato di riascoltarlo, di concedergli una chance in più. Ebbene, ho avuto una piccola folgorazione. Piccola piccola, intendiamoci, ma folgorazione.
Ho scoperto che è un disco molto gradevole, cioè che quella sua gradevolezza senza picchi, non è un limite, ma un pregio e pure abbastanza raro. 50 minuti di musica che non solo si lascia ascoltare volentieri, ma che pure è in grado di regalare un po' di buon umore, a patto di non essere alla ricerca della mirabolante innovazione e di essere indulgenti con l'uso di certi cliché, col già sentito, col "niente di straordinario".
Ma a volte c'è bisogno di rilassarsi, di ascoltare qualcosa che non tenda i nervi, che ci lasci serenamente quieti, almeno in quella porzione di attenzione che dedichiamo alla musica. E questo disco, dischi come questo, sembrano essere fatti apposta per farci battere il tempo senza accorgercene, per farci di tanto in tanto accorgere di quel che abbiamo messo in sottofondo e farci pensare che "non è male 'sto pezzo", prima di riabbandonarlo per tornare a dedicarci alle nostre quotidiane incombenze.

martedì 24 novembre 2009

La ricerca della raffinatezza ovvero sputtanatevi con Ludovico Einaudi

Quando lavoravo al Pronto Soccorso di Pinerolo sono stato destinato per un po' all'ambulatorio dei codici bianchi. Per chi non è pratico di emergenza, la sala dove si visita che non ha un problema urgente. Anche se sembra una sinecura, con responsabilità invero assai ridotte, era un attività di una noia mortale, preludio di una sicura e grave atrofia cerebrale. Unico benefit e ottimo palliativo nell'incessante stillicidio di pazienti praticamente sanissimi, era un PC collegato in rete e dotato di una signora scheda audio che la maggior parte dei miei colleghi usava per ascoltare in streaming Rete 105 o Latte e Miele.
Ora, benchè ascolti musica durante quasi qualunque attività della mia vita, non ho mai trovato che musica ascoltare mentre lavoro. Mi dà fastidio la radio, con i dj che sembrano tutti incocaliti gli uomini e tutte ninfomani le donne, e poi può sempre capitare che mentre ti stai concentrando un cretino chieda di ascoltare "Grazie Roma" e il vociare vendittiano invada la sala visita, rendendo l'ambiente invivibile. Non posso portarmi i miei album preferiti, perchè mi coinvolgono troppo: sarebbe difficile da spiegare (ai parenti, alla direzione sanitaria, al pm) perchè a metà della sutura il medico è balzato a urlare pappàra-pappa-papàra (.. stavo sentendo Let's spend the night together..) o go on go on just walk away go on go on your choice is made ("...i Cure, Eccellenza, i Cure!"). Infine, per combattere la noia assassina dei codici bianchi, mi ero risolto a portarmi dei CD, ma di musica estremamente rilassata, musique d'ameublement, come direbbe Faurè - Abo, hai visto che citazione! - e avevo scelto Music for Airports di Brian Eno e Onde di Ludovico Einaudi. Mentre il Ludovico senza Van sta arpeggiando in serenità entra una signora sui 55, con un trauma al polso, aria dimessa, che con un certo fastidio mi dice "ah, c'é la musica?". Sto per lanciarmi in una disamina della gradevolezza non invadente delle melodie da me selezionate, dell'eleganza raccolta di questi melismi, orgoglioso che, grazie a me ed al mio gusto, non eravamo martoriati da un ritardato sedicente dj, quando la madama, con una certa sicumera aggiunge: "Sono insegnante di pianoforte, odio questa musica basata su un solo accordo!". L'ho mandata a fare le radiografie, meditando su come i migliori sforzi non vengano mai apprezzati.

domenica 22 novembre 2009

Perrineville o Salsasio? It's the same...


Altra mattinata di turno e di nebbia, umida e fredda. La pianura alle 7 di mattina di domenica ha il suo porco fascino, e vorrei tanto dire che per mio raffinato estetismo ho scelto di ascoltare "Badlands: a tribute to Bruce Springsteen's Nebraska", per traghettare da Torino a Carmagnola nella piana nebbiosa. Scelta meravigliosa, perchè l'album è bellissimo e tristissimo, con le sue storie grigie che si dipanano nelle midlands americane. Esistenze approssimative, vite sprecate, rese dal Bruce esemplari con scarno arrangiamento, sono riprese da un sacco di bella gente e arricchite di altri toni di grigio. Chrissie Hynde rende "Nebraska" ancora più straziante, Dar Williams rifà "Highway Patrolman" con classe ed emozione, i Crooked Fingers danno a "Mansion on the Hill" una tensione nuova. Ani Difranco restituisce una "Used Cars" spettrale, che mette tristezza e brividi. Ciliegina finale, Aimee Mann e Michael Penn, alle prese con "Reason to believe", scandita da una steel guitar lacrimosa, dopo essere passati per Son Volt, Ben Harper, i redivivi Los Lobos e uno dei 28 Hank Williams...
Come detto, mi piacerebbe poter dire che l'ho scelto apposta per come si incastrava perfettamente con il panorama desolato dell'alba domenicale, con le strade vuote e nebbiose, con Villastellone che poteva proprio essere la periferia di Lincoln, Nebraska
Non è così, la casualità dell'ultimo cd lasciato nel lettore mi ha gratificato inaspettatamente. E mi ha confermato quanto fosse vera l'iscrizione una volta affissa al Dravelli (per i giovani e/o non torinesi: circolo ARCI) "L'America è solo una grande provincia di Cuneo".
(foto: marcogarrone, moncalieri, 2009)

sabato 21 novembre 2009

Invecchiare coi Duran Duran

Solitamente, l'età in cui si acquisiscono ferree posizioni in materia di gusti musicali è quella dell'adolescenza. Ancora lontani dal dominio della logica e del buon senso propri dell'età adulta, si sa ancora cogliere il gusto sopraffino del linguaggio intuitivo di suoni e melodie, di ritmi ed armonie. In quegli anni le emozioni manifestano ancora un potere violento e trovarne una efficace colonna sonora spesso è persino necessario, per l'evoluzione dei nostri rapporti sinaptici. Quasi sempre, è proprio in quel periodo che maturano i gusti personali e si eleggono i cantori più affini alle proprie inclinazioni.
Successivamente, quando gli anni passano, il rapporto con le note tende a raffreddarsi. Si resta ancorati alle scelte ormai compiute, si vivacchia coi beniamini del passato , ci si lamenta della cattiva musica del presente e si rinuncia a cercarne di nuova. Non è raro sentire cose del tipo "beitempiquandoc'eranoipinkfloyd", o "certocheperòkurtcobainsapevascrivere", o persino "allafineidurandurannoneranocosìmale".
In realtà, anche oggi il mondo continua ad essere pieno di musicisti e di vivacità creativa. Il fatto che i migliori non ci vengano a bussare alla porta e che, invece, si sia costretti a subire impotenti le tiritere fruste del mainstream più volgare in ogni angolo (bar, supermercati, sale d'aspetto, programmi tv, segreterie di call center...) non implica che si sia smesso di fare buona musica.
Il problema è solo che bisogna cercarla.
E quando si invecchia, quando il linguaggio un po' scomodo e violento e scostumato delle emozioni comincia ad essere inadatto a rappresentare i nostri percorsi esistenziali ossidati dal tempo e dall'inerzia, di sbattersi a cercare nuove note non c'è molta voglia.
Beh, forza. Troviamo la voglia. Perchè di note nuove ce n'è.
E di musica c'è sempre bisogno.

Questa mattina nel CD

andando al lavoro in un sabato di nebbie.
Muirshin Durkin - Pogues
The Parting Glass - Pogues
Fast Cars - Buzzcocks
Gates of the West - Clash
The Curtain Call - Damned

The Flaming Lips - Embryionic

Il nuovo album dei Flaming Lips è bellissimo.
Ci va del fegato anche solo per fare una canzone e soprattutto un video così (lei è Karen O degli Yeah Yeah Yeahs):

venerdì 20 novembre 2009

Inizi

Raccolgo l’invito di marc's e ravano nella mia memoria. Poi mi faccio supportare dalla tecnologia informatica per rovistare nel mio archivio di mp3.
Confesso che il primo metodo produce scarsi risultati, il secondo un po’ di più. Il primo però nasce direttamente dalle emozioni ed è pertanto più personale. Il secondo dice anche di quanto la bulimia da emmepitrè si traduca nel possesso di tonnellate di materiale sconosciuto.
Vado ad elencare i più significativi tra i Risultati ricerca:
The Chemical Brothers - Where do I begin? Titolo perfetto per questi post iniziali. La soave Beth Orton sommersa dalle mazzate techno del duo Rowland Simmons. Quando ancora non ripetevano se stessi.
Billie Holiday - Life Begins When You're In Love Swing, swing, swing. E quella voce…
Sylvian+Czukay - Mutability (A New Beginning in the Offing) Pure qui il titolo è adattissimo a questi post. Colonna sonora perfetta per il sottofondo o per i viaggi del pensiero.
(su Youtube non c'è)
Radiohead - Where I End and You Begin Un passaggio di testimone che condensa i temi del post qui sotto e passa l’invito agli altri collaboratori. Semplicemente grandissimi Radiohead in questa che sembra addirittura una canzone normale.

Beh, per cominciare...

...uno si sente poi in dovere di parlare di musica epocale. O di dischi che in qualche modo abbiano lasciato tracce profonde almeno nella propria individuale esperienza. Versosimilmente, per quanto mi riguarda, dovrei tirar fuori qualche riga sul Secondo Tempo del Concerto in Sol per pianoforte e orchestra di Ravel (nell'esecuzione di Benedetti Michelangeli), o spiegare perchè Yesterday si possa ritenere una canzone perfetta, o raccontare i sommovimenti emotivi causati dai ripetuti ascolti di Dummy dei Portishead. Quando però si vuole partire in grande stile, si rischia di non partire mai. Meglio quindi accontentarsi di seguire l'estro di qualche ispirazione momentanea, senza porsi l'obiettivo di lasciare tracce destinate a rimanere incise sulle Tavole della Storiadellamusica.

giovedì 19 novembre 2009

Inizio - Fine 0-2

Ah, il difficile inizio. L'inevitabile crampo dello scrittore alla prima salita. Pensavo di aggirare l'ostacolo con una bella playlist a tema "L'inizio" e mi sono trovato davanti un orrido vuoto. Raschiando il fondo ho recuperato Begin the begin (R.E.M., beninteso) e Unsere Debut (Die Todliche Doris, evitabile). Ah, c'è anche Something's happening, Herman Hermits. Mioddio che miseria... Invece guardate quanti hanno scritto una The End (chi mi cita i Black Eyed Peas è morto), It's the end of the world as we know it, It'll end in tears, e via discorrendo.
Evidentemente è molto più poetica la fine dell'inizio, e allora, fino alla fine vicina o lontana di queto neonato blog, autori e commentatori, teniamo vivo il tema: l'inizio.