sabato 27 novembre 2010

La vecchiaia dei Kinks e il fantasma degli UB40 - Ray Davies "See my friends", Ali Campbell "Great British Songs", 2010)

Per le rockstar e per i calciatori, come spiegava Cicerone nel De Senectute, la gestione del proprio invecchiamento non è certo un problema da poco, specie dopo che hanno vissuto giorni di gloria con folle acclamanti e critici benevolenti. E così, constatare che la vena artistica si è inaridita (o è diventata varicosa), che la cassiera del supermercato non solo non ti chiede l'autografo ma proprio non ti riconosce, che non stai più sulla cresta dell'onda ma su una poltrona coi nipotini, fa proprio male. Sono pochi quelli che portano con orgoglio e saggezza la propria canizie e che hanno fatto della vecchiaia un evoluzione e non un involuzione. I senescenti più saggi diradano le loro produzioni e spesso cesellano artigianato di nicchia, magari collaborano con giovani promettenti e spesso muovono verso uno stile magari più quieto ma affascinante e colto. Esempi? Che so, Peter Hammill, Robyn Hitchcock, Laurie Anderson, lo stesso Knopfler. Altri anzianotti faticano invece a cedere la ribalta e spesso reinventano adunate stile Pavarotti & Friends (& incasso, beninteso) o si lanciano in penose rivisitazione aggiornate della loro produzione passata (venghino siore e siori, rifamo tutto in versione techno!) o cercano di sbancare il botteghino con una confezionata antologia delle grandi canzoni, da loro opportunamente rivisitate.
Due casi recenti. Di Ray Davies, voce, chitarra, songwriter ed anima degli immensi Kinks, abbiamo amato tutto. Quoto nonno Bertoncelli: della cucina di casa Davies avremmo mangiato anche gli avanzi, ed è vero. Anche perché i loro piatti si conservano bene: a distanza di 40 anni il gusto è quasi inalterato e Sunny afternoon è seducente, amara e ironica come nel 1965. Per questo spiace un po' che il Ray abbia sentito la necessità di trovarsi con un orda di "amici", guarda caso uno per brano, per rifare insieme le sue cose più belle, tutte in rigoroso duetto.  Il risultato però è tristarello, nessun brano è orrendo, ma sono tutti costantemente inferiori agli originali, cui la memoria corre inevitabilmente. Beh, no, a ripensarci quello Paloma Faith è proprio orrendo. Al di là della selezione dei brani (manca la già citata Sunny Afternoon, mancano Dandy, Dedicated follower of fashion, ma queste sono preferenze personali) o della selezione degli amici (ognuno ha i suoi, tra quelli di Ray c'è gente degnissima, beninteso, da tal Bruce Springsteen a Lucinda Wiliams a Jackson Brown ad Alex Chilton, ma anche gente che avrei lasciato fuori dalla porta, tipo i Metallica o Jon Bon Jovi) quello che lascia perplessi è che non c'è risposta alla più semplice delle domande: perché? perché rifare con i friends famosi brani che hanno avuto veste migliore, molto migliore? Chi ama i Kinks cosa se ne fa di Victoria cantata dai Mando Diao, peraltro uguale all'originale? o di Lola nasaleggiata  brutalmente da Paloma Faith? e chi non li conosce che idea se ne fa? Sembra tutto un grande tributo all'ego di Mr. Davies che, intendiamoci, sta otto gradini sopra chiunque altro nel pop inglese anni 60, eccezion fatta per 4 liverpudliani, probabilmente però in fase carenziale di riconoscimenti. Sarebbe stato probabilmente meglio che il Ray avesse  preso alcuni (pochi) veri amici, attempati come lui, e dopo la cena ed il whiskino di rito, si fossero messi a registrare su un 4 piste delle versioni casalinghe dei brani, con quel suo vocione caldo e furbetto, un unplugged di coscritti, della prestigiosa leva del '46. Senza fare tardi beninteso, che l'età è quella. L'antologia si chiama See my friends ("guarda i miei amici") ma, se proprio dobbiamo restare nei titoli kinksiani, "Autumn almanac" poteva starci benissimo. Peccato.
E nella foga revivalista si rifà vivo anche Ali Campbell, bianco dalla voce nera e la faccia facciosa degli UB40, quelli di Red red wine, Rat in the kitchen e un altro migliaio di regghettini, alcuni  suadenti superdanzerecci che sono stati colonna sonora a fenomeni di ipersecrezione ormonale, altri poderosi inni libertari (Sing our down song!), tutti comunque godibilissimi.
Mr Campbell aveva già prodotto la sua personale duettata con amici nel 2007 (aveva tirato dentro, con il gusto dell'ossimoro Smokey Robinson e Mick Hucknall e Katie Melua) e allora ritorna con un idea un po' banalotta ma potenzialmente simpatica, cioè cantarci alcune grandi canzoni inglesi (Great British Songs si chiama l'album). Peccato che il non più giovane Campbell sappia solo quella musica là, anni 80-82 ed in questa noiosa chiave ci ripropone Beatles (got to get you into my life, a hard days  night) Stones, Kinks, Hollies, Free. Il tutto però registrato nel 2010, quindi con dovizia di campionatori e ammennicoli elettronici e Sly &Robbie alla consolle. Da psicoanalisi poi che per Campbell non ci siano grandi canzoni britanniche negli anni 80 mentre già così, a me, due o tre titoli verrebbero. Al netto è un pastiglione molto uniforme, con la voce non brutta ma neanche epocale - non è Paul Robeson o Marvin Gaye, e si sente -, che potrebbe essere ballabile ma che sentito a volumi onesti diventa musica da sfondo di supermercato. Riesce facile immaginarsi al settore surgelati a chiedersi, ma di chi è sta versione reggae di Paint it black?  Ci si avvia mestamente alla cassa e se davanti non avete Ali Campbell in persona, nessuno  risponderà. Comunque non chiedete alla cassiera, lei Campbell non lo conosce. 
PS: mentre redigevo questa biliosissima tirata, colto dal dubbio di essere eccessivo nelle mie  osservazioni ho surfato il www alla ricerca di altre, più dotte e più posate recensioni. Con grande gioia scopro che il sito della BBC è più sarcastico di me.

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