mercoledì 26 maggio 2010

Consigli per gli acquisti - Ian Dury, Hold on to your structure - Live at Hammersmith Odeon, DVD

Alcuni decenni fa, l'unica data torinese dei Camper Van Beethoven venne funestata da un individuo, palesemente ubriaco, che nella pausa tra un brano e il successivo sbraitava entusiasta "dancedancedance!!", incurante della scarsa ballabilità dei CVB. Nel suo ultimo, peraltro malinconico, romanzo Nick Hornby racconta di un bootleg rovinato da uno spettatore sbronzo che urla nel microfono "rock'n'roll!" per tutto il concerto. Quanta gente c'è che ai concerti si diverte in maniera frenetica, felicemente persa tra urla sguaiate e danze scomposte, fregandosene altamente delle scarse attitudini tersicoree o della poca aderenza al testo del loro cantato? Pur trovandole fastidiose, ho sempre provato una profonda invidia per queste persone, perchè, se anche possono sembrare rozzamente primitive (e magari lo sono, e si ubriacano a casa e picchiano la moglie, però vabbè, questo è un altro discorso..), sono gente che si sta divertendo. Cazzo se si sta divertendo. Ed il divertimento è sicuramente un valore aggiunto della musica pop, anzi nè è forse la cifra che più la distingue dalla classica. Avete mai visto Zubin Mehta ghignare di gusto a metà del Requiem o Uto Ughi fare diving sul pubblico? Divertirsi però è stata storicamente una virtù poco praticata: il prog aveva reso tutti serissimi, poi vennero i punk ma erano troppo incazzati, i dark troppo pensosi, i cantautori troppo adulti e quando qualcuno ha pensato di fare della gioia un manifesto (la 2Tone music, i Madness, lo ska) ha fatto il botto anche con meriti artistici discutibili. Se c'è qualcuno che ha divertito divertendosi questo è stato proprio il compianto Ian Dury, e questo DVD fotografa benissimo la allegra frenesia dei suoi concerti. Sconosciuto ai più, che continuano a citare la frase "sex'n'drugs'n'rock'n'roll" senza sapere che era una sua canzone, penalizzato dal pregiudizio legato alla sua deformità (polio in età infantile) e alla montagna di parolacce e doppi sensi che sovraffollano le sue liriche, Dury è stato tutto tranne che uno zozzone scemotto o un fenomeno da baraccone. Diplomato al Royal College of Arts, anche se ha firmato orgoglioso testi come "Fucking ada", "Billericay Dickie" (ci sono più doppi sensi in questo brano che in tutta la discografia di Elio)  o "Wake up and make love with me", Dury ha avuto modo di celebrare nei suoi testi il difficile rapporto con un padre assente per  lavoro (My old man) e di additare l'ipocrisia dell'Anno del Disabile (Spasticus autisticus), di raccontare il buono ("What a waste") ed il cattivo ("I want to be straight") di una vita sopra le righe. Musicalmente non ha inventato nulla, ma ha sviluppato con ammirevole eclettismo un meticciato musicale ricco di influenze, dal musical al punk nascente. Ma soprattutto è riuscito a suonare sorridendo compiaciuto di quello che lui ed i suoi Blockheads stavano facendo e il filmato nè è prova incontrovertibile. Qui c'è tutto il suo meglio, dalla frenesia di "Sweet Gene Vincent" al rap ante litteram di "Reasons to be cheerful" (che significa, guarda caso, ragioni per essere allegri e che Nick Nornby ha proposto come nuovo inno nazionale inglese) dall'inno pagano di "Hit me with your rhythm stick" all'indimenticabile ed indimenticata "Sex'n' Drugs 'n' Rock 'n' Roll", ovvio bis per chiudere il sipario con un grande sabba finale.
Nella mia vita ho sentito musica più raffinata, più tormentata, più complessa e sicuramente lo fanno altri della nostra ciurma. Ma se mai qualcuno mi chiedesse che cosa è il rock, dato che mi mancherebbero le parole, gli farei ascoltare Sweet Gene Vincent.

PS: nel video linkato di Sweet Gene Vincent alla chitarra c'è ospite Mick Jones dei Clash (e poi Big Audio Dynamite e poi Carbon Silicon....) e il buon Ian lo tranquillizza dicendogli testuale che ci sono solo 4 accordi in tutta la canzone. Chi altri l'avrebbe fatto?

martedì 25 maggio 2010

Miles Davis - Live in Rome & Copenhagen 1969

Per chi apprezza il genere: è stato da poco pubblicato da Gambit un doppio CD contenente le registrazioni di 2 concerti del 1969 del Miles Davis quintet, zona “svolta elettrica”, per intenderci (Davis, Shorter, Corea, Holland, De Jonette ).
È l’occasione di assistere ad un evento altrimenti irripetibile: l’atto creativo colto nel momento in cui si realizza. I brani, come succede quasi sempre nel jazz, ma in questi episodi tendenti al free ancora di più, sono solo un canovaccio, una traccia per i musicisti, ma l’interpretazione di essa è totalmente delegata al loro estro. E che estro!
Più di 2 ore di musica di altissimo livello, oscillante tra tenui rumorismi (l’introduzione è disorientante, per usare un eufemismo), energetiche cavalcate jazz con un Miles Davis in formissima, meditabonde ballads… Un universo musicale contenuto in un jewel-box.
Per chi apprezza il genere.

PS Attenzione, chi poco frequenta il jazz non inizi da questa roba qua. Siamo nell’ostico avanzato.

venerdì 21 maggio 2010

Tum-tà-ratatatatum-tumtà

No, ma io dico:
Suoni la batteria? Bene, anzi, benissimo.
La batteria è colonna portante, motore pulsante di ogni gruppo che si rispetti, l’intelaiatura ritmica senza la quale tutto crollerebbe miseramente. E poi personalmente ho sempre avuto una certa simpatia per uno strumento che si suona con tutto il corpo, invece che con le sole dita o la bocca.
Vabbè, non proprio tutto il corpo, mani e piedi, ma ci siamo capiti. Mi pare che il batterista sia immerso nella musica che fa, che la viva davvero con tutto se stesso.
Poi è vero, il batterista ha due grossi problemi.
Innanzitutto “non fa le note”. Cioè potenzialmente può anche non capirne un tubo di musica, manco sapere dove stanno diesis e bemolle, per dire. Basta che sappia quando picchiare sui tamburi e via, il suo lavoro è fatto.
Un batterista così conciato per quel che ne capisco io è un po’ limitato, però ce n’è tanti così che fanno il proprio lavoro egregiamente, quindi effettivamente funziona lo stesso.
Poi c’è il secondo problema, e sto quasi arrivando al punto.
Il ruolo del batterista è quello del gregario. Esistono eccezioni illustri, Phil Collins o quello degli Eagles che non so come si chiama, ma generalmente il suo posto è dietro le star. Mentre lì davanti si beccano applausi, ovazioni, mutandine delle fan, stage diving e foto a raffica, il batterista sta nascosto dietro piatti e tamburi e mentre la fan scatenata sale sul palco a farsi palpeggiare dal cantante, a lui magari gli dicono di non fermarsi neanche a guardare, che bisogna tenere su il ritmo.
Allora per concedere anche a lui un po’ di luci della ribalta, hanno inventato quella cosa lì, quella che io detesto profondamente: l’assolo di batteria.
Uno, due, anche tre minuti solo per lui, nessuno suona e lui (tu, caro il mio batterista) ha carta bianca per sfogare tutta la sua tecnica eccelsa, per dimostrare a tutti quant’è bravo, che lui tecnicamente vale quanto e magari di più di quei quattro sciamannati che si agitano lì davanti. E così vai con ritmi multipli, rullatoni epici, tempi dispari complicatissimi, e dulcis in fundo il gran finale fatto di una tempesta roboante di colpi su tutto ciò che c’è di percuotibile a portata del nostro batterista.
Ma per noi del pubblico, sappilo caro batterista, è una noia mortale. È il momento giusto per farsi una birretta durante il concerto.
Non per tutti, certo, c’è anche chi si impressiona. Generalmente sono o a loro volta batteristi o giovani musicisti principianti che si inginocchiano estasiati di fronte al dio della “tecnica fine a se stessa”.
Gli altri no, sta sicuro. Si stufano.
Sono venuti lì per vedere un concerto, il risultato di un lavoro di squadra. Coesione, interplay, armonie e melodie, per ballare, cantare o anche inebriarsi dello sguardo torbido del cantante, ma non di certo per farsi sommergere dalle tue rullate. Mi spiace, ma è così.
A volere fare una similitudine è un po’ come se durante una partita di calcio, tutti si fermassero per vedere il portiere che fa un’esibizione di palleggi di 3 o 4 minuti. La prima volta stai a bocca aperta a guardare quant’è bravo, la seconda ti annoi un po’, dalla terza in poi ne approfitti per andare a pisciare.
Infine un’informazione che forse non sarà determinante, ma magari ti dà un’idea di come reagisce l’ascoltatore medio: io quando li sento su CD, skippo.

Ah, poi per non essere accusato di partigianeria:
Bassista: vale anche per te il discorso!

(accidenti che brontolone che sto diventando… sarà l’età?)

John Grant - Queen of Denmark

Un bell'album fatto di belle canzoni. Tutto qui.
È la voce a farla da padrona in questo CD, e John Grant (ex leader degli Czars, ma io francamente non li conoscevo), la voce ce l'ha davvero bella. Calda, pulita, intensa.
E le canzoni, pur essendo solo canzoni e pure piuttosto melodiche, sono davvero belle e non banali.
Ai primi ascolti mi sono accorto di essere sempre timoroso per la scivolata nell'ovvio, a dire "adesso se ne viene fuori con la soluzione facile da canzonetta", e invece riesce sempre a mantenersi un pelo al di là, oltre i confini dello scontato.
Poi i riferimenti ci sono, ci mancherebbe, ogni tanto fanno capolino certe atmosfere prog anni '70, ma solo ogni tanto, poi certo cantautorato moderno, tipo Rufus Wainwright o Antony and the Johnsons.
Alle spalle, agli strumenti, ci sono i Midlake, band texana con cui Grant ha condiviso alcune date del tour facendo da spalla nei concerti.
Pare che siano stati incantati dalle sue esibizioni soliste e che avrebbero considerato un delitto non fargliele incidere come si deve.
E per quanto mi riguarda hanno avuto ragione da vendere.

martedì 18 maggio 2010

I 5 migliori fantasmini

Sulla scia dello sfogo luchiano sui brani fantasma o, anglicamente parlando, hidden tracks (qui ben spiegati), dopo essermi perso nei vaniloqui di merceologia sul perchè nascondere un brano, mi/ci tocca ammettere che alcuni brani fantasma sono gradevoli assai. Non siamo i primi a stilarne una classifica (vedi qua) ma, nella nostra logorrea non nascondiamo i nostri preferiti.
Via:
Beatles, Her Majesty (Abbey Road)
Zebda, Dans ma classe (Utopie d'Occase)
Clash, Train in vain (London Calling)
Barenaked Ladies, Hidden sun (Maroon)
Eddie Vedder, Guaranteed (reprise, da Into the Wild)

Cocorosie - Grey Oceans

Avete presente la storiella del tizio che imbocca l’autostrada contromano e pensa che siano tutti quelli che gli vengono incontro ad avere preso la direzione sbagliata?
Beh, è quello che mi è venuto in mente ascoltando questo disco.
Sia in rete che sui giornali non ho trovato una recensione positiva, al massimo dei liquidatori 6,5, mentre a me piace un sacco. E questo, a differenza del tizio della barzelletta, mi ha fatto pensare di essere contromano, soprattutto rispetto alle fonti che solitamente trovo autorevoli.
Invece, per quanto poi mi sia sforzato di essere critico, continuo a ritenerlo un bell’album.
I richiami a cose già sentite sono tanti, la divina Björk su tutti (ma pure Laurie Anderson), ma in fondo inizio a pensare che sia un problema di qualunque cantantessa che provi a pasticciare con la propria voce e utilizzi diavolerie elettroniche per comporre musica: il paragone impietoso con miss Guðmundsdóttir salta inevitabilmente fuori, tanto vale farsene una ragione.
Per il resto, ho ascoltato 11 brani gradevolissimi, in bilico tra il folk intimista e le derive elettroniche, qualche scarto dance e ballate pianistiche. Qualche bella sorpresa imprevista, arrangiamenti particolari e un uso bizzarro delle voci ne fanno un disco gradevolmente insolito.
Da altre parti leggerete di accorgimenti furbetti o soluzioni facilotte. Sarà, però io continuo a pensare che, pur rimanendo in ambito pop, siamo al cospetto di un lavoro interessante e curato, non un capolavoro, no, ma di certo di livello davvero buono.

Ah, la copertina invece fa davvero schifo. A parte la foto, la grafica sembra fatta di corsa con PowerPoint.

domenica 16 maggio 2010

Erland and the Carnival - Erland and the Carnival

Strano album questo. Presentato come folk-rock (nel solito megastore della FN*C è tra le sorprese, descritto enfaticamente come fossero i nuovi Fairport), riserva non poche emozioni di tutt'altra matrice. Molti, è verità, sono brani della tradizione folk, altri sono originali, ma la generale sensazione è che i rimandi siano più a sonorità new-wave che al folk, che sembra essere più una scusa che un vero riferimento culturale, un po' come capitò negli anni '80 con i Big Country. Tastiere ipnotiche e riffs ripetitivi citano i Cure e contribuiscono ad una generale malinconia ambientale, con buoni risultati e senza cadute di gusto. Forse la compattezza, suo primo pregio, è anche il limite di questo disco, in cui  manca il brano che si stacca dal resto. Melodico e tristanzuolo, per pomeriggi piovosi.

venerdì 14 maggio 2010

Gonjasufi - A Sufi and a Killer

Tipico prodotto di casa Warp, in altre parole: una cosa molto difficilmente definibile. Un patchwork di generi e stili, campionati e sporcati, c'è hip-hop e terzomondo, Tricky e la Giamaica, nenie arabeggianti e cavalcate kraut-rock, dub e western.
19 brani che non sono neanche canzoni. Tracce, frammenti.
Un gran casino, insomma. Ma piacevolissimo e molto più ponderato e preciso di quanto possa sembrare, colonna sonora perfetta per le giornate piovose.

Ah, Sumach Valentine, aka Gonjasufi, è questo tizio qua sotto.
Tanto per farsi un'idea.

giovedì 13 maggio 2010

LCD Soundsystem - This Is Happening

Il nuovo album degli LCD Soundsystem spacca.
E di brutto pure.










PS: questo post non vuole affatto essere il prototipo per le "Brevissime segnalazioni", ci mancherebbe. Solo che quella cosa che ho scritto qui sopra è esattamente quello che ho pensato ascoltando quest'album.
Sono un po' tamarro, in fondo. Lo so.

Brevissime segnalazioni

Inauguro oggi l’ennesima rubrica e decido unilateralmente di chiamarla, come da titolo del post, “Brevissime segnalazioni”.
Mi scaturisce semplicemente dal fatto che in questo periodo sto viaggiando parecchio in macchina, il che si traduce in un sacco di musica ascoltata, ma pure in poco tempo per parlarne. Sto quindi ascoltando diverse cose di cui mi piacerebbe almeno dare notizia, per cui mi premurerò di farlo anche se solo con qualche riga invece della solita sbrodolata di recensione.
Amen.

mercoledì 12 maggio 2010

Leddra Chapman - Telling tales

Di Leddra Chapman confesso che non sapevo niente fino a che non ho letto una recensione entusiasta da qualche parte che ora non ricordo (pagina musicale del Guardian? Pitchforkmedia? Corriere di Chieri? Eco del Chisone? Boh..) Ad ogni buon conto, mi sono fidato e mi sono procurato il disco della Leddra (ma che nome è?) e non posso che dirne bene, specie se si tiene conto che è una prova di esordio. La giovane compone e suona brani suoi in piena autonomia e ci riesce davvero benino. Bella la voce, soprattutto bella la joie de vivre che emana dalle sue canzoni, anche dalle più riflessive. Non posso nascondere un amore incondizionato per un orda di cantautrici quantomeno inclini alla melanconia (Marissa Nadler, la prima Torrini, Aimee Mann, Lhasa, la stessa DiFranco) e pure un debole per quelle francamente depressive (Marianne Faithfull, o vogliamo parlare di Nico?). Ma viene un momento in cui qualche raggio di sole non guasta e la Chapman è in grado di fornirlo. Stilisticamente il modello di riferimento è sicuramente Kate Bush, la cui presenza aleggia su tutto il disco, dagli stilemi melodici al gorgheggio che ogni tanto sa di virtuosismo al quasi ubiquitario pianoforte (sentite l’attacco di Edie, per esempio e vi trovate subito dalle parti di The man with the child in his eyes) . Proprio come l’illustre predecessora (ma si potrà dire?) la Chapman si rifà in maniera consistente ad ambientazioni rurali, che fanno molto english, a quell’Inghilterra bucolica e verde, tutta vecchie zie che vanno in bicicletta e tè coi biscotti, forse stucchevole ma sicuramente elegante e affascinante. Beninteso, la Chapman non è Elgar o Britten, è squisitamente poppeggiante e moderna e declina la sua delicatezza su melodie accattivanti. Anzi, a ben guardare non è nemmeno folk, nel senso che sì, è cantatutorato acustico, ma di musica tradizionale neanche l’ombra. Insomma, siamo più vicini a Fiona Apple che ai Pentangle e un altro riferimento, meno netto della diva Bush, potrebbe essere Virginia Astley (e chi non conosce la Astley peste lo colga!). Tante bei brani, meditati e confezionati con gusto – le mie preferite: Picking Oranges, Summer Song, Jocelin, la già citata Edie – ma tutto il disco mantiene un profilo alto, con solo occasionali divagazioni un po’ easy. L’unica cosa da NON guardare, come invece ho disgraziatamente fatto, è il sito internet della Chapman in cui la fanciulla compare imbellettata come una testimonial di una linea di trucchi e dove apprendiamo che la Leddra è una delle Quiksilver Girls. Queste sono una pattuglia di femmine famose che pubblicizzano gli omonimi capi di vestiario, e chi siano le altre costituenti la pattuglia ci è ignoto e indifferente. Certo che tanta grazia e delicatezza, che al primo assaggio hanno un genuino gusto di meditata allegria, stonano non poco con ombretti da cover-girl e con un contratto pubblicitario così pervasivo da comparire nella home page. Va bene che tutti dobbiamo mangiare però che peccato…. Forse è solo uno dei segni della decadenza dei tempi, non credo che  Sandy Denny o Jaqui McShee avrebbero mai fatto la pubblicità dei jeans... Allora chiudete gli occhi, e tappatevi il naso, fate finta di non vedere, tenete vive solo le orecchie e attenetevi romanticamente alla musica. E sarete soddisfatti.

Gli odiosi fantasmini

Piccolo, inutile e astioso intervento sul blog dopo un periodo di ingiustificata ma giustificabile latitanza, per sfogare una piccola irritazione che di tanto in tanto mi tocca provare quando ascolto un CD. In sostanza quel che mi chiedo è: ma che cavolo di invenzione sono le ghost-track?
Mi riferisco a quelle canzoni che non compaiono nella lista dei titoli dell’album, e che si vanno a piazzare dopo l’ultima traccia, in coda a questa, dopo un intervallo di vari minuti di silenzio.
Cioè, uno piazza il CD nel lettore, lo ascolta traccia dopo traccia (nota: l’ascolto rigorosamente in ordine di traccia di un CD è una mia ossessione. Io non riesco a saltare da un brano all’altro, per me il CD è un monolito indivisibile. Ne parlerò più nel dettaglio qui. O col mio analista.) e quando arriva all’ultimo pezzo vede una durata intorno ai 12 minuti. “Figata!”, dico io che apprezzo in modo irragionevole i pezzoni lunghissimi (altro argomento da sviscerare), “il CD si conclude con la suite interminabile!”. E invece dopo i canonici 4 o 5 minuti il brano si conclude e poi silenzio. Il contatore va avanti, ma dalle casse non esce nulla. Poi, se uno ha la pazienza di aspettare, a un certo punto parte una nuova canzone: la ghost-track.
Ora, io mi chiedo, e chiedo agli autori del CD: ma se la canzone ti piace e la ritieni degna di pubblicazione, perché diavolo la nascondi? E in un modo così puerile, poi.
E se invece non ti piace, perché diavolo la pubblichi? Lascia stare, la ficcherai poi in un “inediti e rarità” fra qualche anno, quando non saprai più cosa pubblicare.
Qualcuno addirittura la nasconde ancora meglio: nel CD dei Lamb Fear of Fours, c’è addirittura una sorta di traccia 0, a cui si arriva facendo partire il CD sulla traccia 1, mettendolo in pausa e poi insistendo sul rewind prima del secondo 0:00. Una cosa che o la sai o quella traccia non la sentirai mai.
“Regalo per i fan” viene a volte definito, come se i fan di un gruppo fossero una sorta di loggia massonica in cui solo agli iniziati viene svelato il segreto della traccia 0…
Bah. Continuo a non capire.
Poi io, che di pazienza non ne ho, quando arrivo alla fine dell’ultimo brano dichiarato e mi accorgo che il CD non si stoppa o riparte a causa di una misteriosa traccia fantasma, mi incazzo, schiaccio il fast-forward fino a beccarla, la ascolto una volta una, invariabilmente decido che “fa schifo, ecco perché l’hanno nascosta!” e poi non l’ascolto mai più.
Così imparano a non fare i giochini da bambini, che siamo tutti col pelo grigio, qui.