venerdì 4 febbraio 2011

Captain Beefheart

È chiaramente un segno dell'inesorabile scorrere del tempo, e tanto varrebbe farci l’abitudine, perché ci sono ben pochi rimedi a riguardo. Però è una cosa che ogni volta che ci penso mi mette addosso un po’ di tristezza.
Man mano che il tempo passa sono sempre più frequenti le scomparse di persone che in varie misure hanno contato qualcosa nella mia vita. E questo blog ne è una prova, anche solo nell’ambito musicale. Li ho contati un po’ alla veloce, ma in poco più di un anno sono 8 i post ad memoriam, uno stillicidio.
E ora è toccato a sua maestà Don Van Vliet, also known as Captain Beefheart.
In realtà è morto un mese e mezzo fa (il 17 dicembre scorso), ma essendo un pelino meno celebre di Michael Jackson, la notizia ha avuto un po’ meno risonanza, e io me l’ero persa.
L’ho scoperto ieri, ed è stata un’altra botta di tristezza.
Lo conoscevo non da moltissimo tempo, da quando ho scoperto che gente come John Peel, Lester Bangs o il nostro Piero Scaruffi lo consideravano autore del più grande disco rock di tutti i tempi: Trout Mask Replica.
Era un periodo in cui cercavo di recuperare la conoscenza sulla musica pre-1980, di colmare lacune che ho poi scoperto essere vere voragini, per cui scoprire che uno di cui manco avevo mai sentito il nome era tributato essere l’autore del Capolavoro Assoluto, non poté che lanciarmi all’acquisto immediato e spasmodico di quell’album.
Credo quindi di avere fatto come tutti: ho acceso il lettore CD e mi sono chiesto cosa cazzo stesse succedendo. Musica fuori fase, scoordinata, fuori tempo, ognuno per i cavoli suoi, quella voce magnetica ma assurda. E questo sarebbe Il-Capolavoro?
Capii solo più tardi di avere tentato un balzo troppo lungo. Ero passato, tanto per fare paragoni, da Calvino a Joyce, da Spielberg a Buñuel, da Caravaggio a Pollok. Avevo piantato una nasata, nulla di cui stupirsi.
Comunque del personaggio Captain Beefheart ho cercato informazioni, critiche, analisi, ho ascoltato gli altri suoi dischi, ho cercato di capirlo arrivando a capire che non c’è da capire. Come spesso succede nell’Arte.
E alla fine mi ci sono affezionato. Come ci si può affezionare ad un tizio burbero e scontroso che però è capace di guardare e vedere cose che tu non sai neanche immaginare.
E poi fece quello che ogni artista degno di questo nome dovrebbe fare invece che sputtanarsi: si ritirò.
O meglio: ci provò ancora per più di 10 anni a fare il musicista, a incidere album che venivano alternativamente stroncati o osannati (ma con quella zavorra di precedente là, vorrei vedere chiunque a reggere il paragone), ma che comunque si rivelavano invariabilmente un disastro commerciale.
E quindi si dedicò alla pittura. Ed ebbe successo, veramente.
Cioè, prendete una star bollita a caso, uno Sting, un David Gilmour e lasciatelo dedicarsi alla pittura. Quante sono le probabilità che venga preso a calci in culo dalla critica unanime? Altissime secondo me.
Be, lui, tornato a chiamarsi Don Van Vliet, no. Ha avuto successo. Ha esposto al MoMa. I suoi quadri costavano un botto quand’era vivo, figuratevi ora.
E non so perché, ma questo successo me lo rendeva ulteriormente simpatico. Un artista vero, di quelli che se gli dai uno strumento espressivo qualsiasi, con quello ci fanno Arte, con la maiuscola.
La sua musica oramai era cristallizzata nel passato, non ne avrebbe fatta più di nuova. Ma mi spiace lo stesso davvero che se ne sia andato. Aggiunge un altro briciolo di tristezza al tempo che passa.
Ciao Capitano.

Qui sotto è ritratto assieme al suo amico-nemico Frank Zappa.
Signori di Hollywood: se mai decideste di fare un film sul Capitano, e sarebbe proprio il caso, Benicio Del Toro è perfetto per la parte.
Poi non dite che non ve l'avevo detto.

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