lunedì 14 febbraio 2011

Parole famose - In un mondo perfetto...

"Il mondo non è perfetto. In un mondo perfetto Mark Chapman avrebbe ucciso Yoko Ono" - Daniele Lttazzi, (la battuta è registrata come di Luttazzi, ma essendo Luttazzi, non si sa mai...)

venerdì 4 febbraio 2011

Captain Beefheart

È chiaramente un segno dell'inesorabile scorrere del tempo, e tanto varrebbe farci l’abitudine, perché ci sono ben pochi rimedi a riguardo. Però è una cosa che ogni volta che ci penso mi mette addosso un po’ di tristezza.
Man mano che il tempo passa sono sempre più frequenti le scomparse di persone che in varie misure hanno contato qualcosa nella mia vita. E questo blog ne è una prova, anche solo nell’ambito musicale. Li ho contati un po’ alla veloce, ma in poco più di un anno sono 8 i post ad memoriam, uno stillicidio.
E ora è toccato a sua maestà Don Van Vliet, also known as Captain Beefheart.
In realtà è morto un mese e mezzo fa (il 17 dicembre scorso), ma essendo un pelino meno celebre di Michael Jackson, la notizia ha avuto un po’ meno risonanza, e io me l’ero persa.
L’ho scoperto ieri, ed è stata un’altra botta di tristezza.
Lo conoscevo non da moltissimo tempo, da quando ho scoperto che gente come John Peel, Lester Bangs o il nostro Piero Scaruffi lo consideravano autore del più grande disco rock di tutti i tempi: Trout Mask Replica.
Era un periodo in cui cercavo di recuperare la conoscenza sulla musica pre-1980, di colmare lacune che ho poi scoperto essere vere voragini, per cui scoprire che uno di cui manco avevo mai sentito il nome era tributato essere l’autore del Capolavoro Assoluto, non poté che lanciarmi all’acquisto immediato e spasmodico di quell’album.
Credo quindi di avere fatto come tutti: ho acceso il lettore CD e mi sono chiesto cosa cazzo stesse succedendo. Musica fuori fase, scoordinata, fuori tempo, ognuno per i cavoli suoi, quella voce magnetica ma assurda. E questo sarebbe Il-Capolavoro?
Capii solo più tardi di avere tentato un balzo troppo lungo. Ero passato, tanto per fare paragoni, da Calvino a Joyce, da Spielberg a Buñuel, da Caravaggio a Pollok. Avevo piantato una nasata, nulla di cui stupirsi.
Comunque del personaggio Captain Beefheart ho cercato informazioni, critiche, analisi, ho ascoltato gli altri suoi dischi, ho cercato di capirlo arrivando a capire che non c’è da capire. Come spesso succede nell’Arte.
E alla fine mi ci sono affezionato. Come ci si può affezionare ad un tizio burbero e scontroso che però è capace di guardare e vedere cose che tu non sai neanche immaginare.
E poi fece quello che ogni artista degno di questo nome dovrebbe fare invece che sputtanarsi: si ritirò.
O meglio: ci provò ancora per più di 10 anni a fare il musicista, a incidere album che venivano alternativamente stroncati o osannati (ma con quella zavorra di precedente là, vorrei vedere chiunque a reggere il paragone), ma che comunque si rivelavano invariabilmente un disastro commerciale.
E quindi si dedicò alla pittura. Ed ebbe successo, veramente.
Cioè, prendete una star bollita a caso, uno Sting, un David Gilmour e lasciatelo dedicarsi alla pittura. Quante sono le probabilità che venga preso a calci in culo dalla critica unanime? Altissime secondo me.
Be, lui, tornato a chiamarsi Don Van Vliet, no. Ha avuto successo. Ha esposto al MoMa. I suoi quadri costavano un botto quand’era vivo, figuratevi ora.
E non so perché, ma questo successo me lo rendeva ulteriormente simpatico. Un artista vero, di quelli che se gli dai uno strumento espressivo qualsiasi, con quello ci fanno Arte, con la maiuscola.
La sua musica oramai era cristallizzata nel passato, non ne avrebbe fatta più di nuova. Ma mi spiace lo stesso davvero che se ne sia andato. Aggiunge un altro briciolo di tristezza al tempo che passa.
Ciao Capitano.

Qui sotto è ritratto assieme al suo amico-nemico Frank Zappa.
Signori di Hollywood: se mai decideste di fare un film sul Capitano, e sarebbe proprio il caso, Benicio Del Toro è perfetto per la parte.
Poi non dite che non ve l'avevo detto.

mercoledì 2 febbraio 2011

Anna Calvi - s/t

Credo che sia una questione di sovrabbondanza e anche un po’ di preventiva diffidenza, ma io nella musica più recente, faccio fatica ad avvertire il pulsare del cuore. Intendiamoci, non sono assolutamente uno di quelli che “ah, dopo il 1979 in campo musicale si è prodotta solo merda, il rock è morto e sepolto da allora”, anzi, adoro il presente e cerco per quanto possibile di tenermi un po’ aggiornato.
Però quando ascolto un disco recente, soprattutto le prime volte, è molto raro che riesca a riconoscergli un’anima lampante, un segno tangibile che quelle note e quei suoni sono stati prodotti con il cuore e non solo con la testa (cosa di per sé tutt’altro che disprezzabile, almeno in confronto alla terza alternativa: il portafogli).
Credo che 50 anni di rock abbiano ormai esplorato talmente tante direzioni da porre chi fa musica di fronte ad un dilemma ormai imprescindibile: o far tesoro delle creazioni altrui, e così diventare derivativo, scopiazzatore, già sentito eccetera, o cercare ulteriori nuove strade con il rischio di apparire autore di originalità fine a se stessa.
Così troppe volte ascoltando un disco recente mi ritrovo ad oscillare tra questi due poli senza riuscire ad appassionarmi (nel senso etimologico del termine) veramente e riponendolo poi dopo l’ascolto costretto a ripromettermi di tornarci su per un ascolto più sedimentato.
A volte però no. Il disco mi colpisce immediatamente, si lascia amare da subito, senza tentennamenti.
E questo è il caso di questo esordio omonimo dell’inglese Anna Calvi.
10 tracce di musica sanguinante, altro che col cuore.
Sarà che suona la chitarra in maniera egregia, lasciandole addosso quella patina sporca e cattiva che solo dalle chitarre nude e senza troppi effetti leccati si riesce a tirare fuori.
Sarà che il suo modo di cantare, profondo e caldo, è coinvolgente come pochi, e che evoca solo riferimenti illustri (PJ Harvey e Siouxsie su tutti).
Sarà che i brani non hanno paura di debordare nei meandri cupi ma fertili di un certo rock funereo (Nick Cave & The Bad Seeds dei primordi, Scott Walker,…)
Sarà dunque che la ragazza del rischio di essere accusata di derivativismo (si dice così l’essere derivativi?) se ne fotte bellamente, e che usa il già sentito come sponda a cui appoggiarsi prima di balzare da sola.
Sarà, sarà, sarà… ma questo disco è bellissimo e se anche ne sentite parlare un po’ troppo in giro, come capita con quei troppe volte effimeri prodotti che tanto puzzano di hype, per una volta scrollatevi di dosso quell’aria diffidente, e dategli una bella chance.
Per me questo è uno di quei dischi che durano.